* di Vincenzo Di Sabato
Gli ultraottuagenari come me ricorderanno le belle primavere lontane quando “s’udiva sonar la squilla della sera/che dolcemente invitava alla preghiera”. Era maggio, “era” il mese di Maria. Tanta gente si nutriva allora di fede, di infinito, di metafore. E cresceva attorno al campanile tra fruttuose consuetudini che insegnavano gioia e donavano eccitazioni per superare gli affanni.
Al “sonar della squilla” chiudevano bottega sarti, barbieri, falegnami, fabbri. I “mastri” e gli apprendisti saturavano il tempio. Anche sartine, magliaie, ricamatrici portavano a Maria “fiori e cuori” animando indimenticabili riti profumati d’incenso.
Ogni giorno meditazioni diverse; parole di cielo tratte dai classici mariani, sempre attraenti e adatti alla spiritualità popolare di allora. Ricco il repertorio di armoniose litanie cantate dopo la carezzevole intercalante “Sei pura, sei pia”: le otto strofe divote di Sant’Alfonso. Fervide anche le giaculatorie in rima baciata ed il fioretto suggerito per l’indomani. Un insieme di ricchezze e di splendori che rendevano affascinante ed istruttiva l’azione sacra a Maria
Mese di Maggio 1968. Monsignor Giovanni Proni, Vescovo romagnolo a Termoli, aveva fretta di informare a tutto il popolo, un sogno tramutato di quei giorni in verità. La Diocesi di Guardialfiera, soppressa nel 1818 e proporzionata a quel tempo per estensione press’a poco a quella di Termoli, è riabilitata a “titolarità episcopale”. Mons. Proni, personaggio poliedrico ed esplosivo, aveva cavato dal suo cilindro magico questo imput che propugnò con eccitazione a Paolo VI il quale, razionalmente persuaso, firma la Bolla di Consessio ed elegge là per là lo spagnolo Ramon Marcé primo nuovo Vescovo titolare di questa Cattedrale. Il pomeriggio del 24 maggio, festa di Maria Ausiliatrice, Proni trascina con sé da Termoli – oltre a don Marcello suo segretario, don Enea cerimoniere, il primicerio mons. Notarpasquale – tre canonici guardiesi: don Michele, don Giulio e don Mario.
“Ci vuole anche un pontificale per lodare e ringraziare convenientemente Maria per un simile riconquistato privilegio”, enfatizzò il presule, “e che va officiato proprio dentro il tempio vescovile di Guardia dedicato a Maria”. Il Vescovo quel 24 maggio ne varca la soglia in corteo, com’era in uso allora, mentre Michelino Caprara (tenore dal timbro caldo, venuto casualmente da Somma Lombardo) intona con voce limpida e dolcissima, “l’Ave”, il carme saffico di Giosué Carducci, romagnolo come Proni. L’Ave – cioè -“l’umil saluto che, quando corre sull’aure, i piccioli mortali scovrono il capo, e curvano la fronte come Dante e Aroldo. E come di flauti lenta melodia, passa invisibile fra la terra e il cielo e una soave volontà di pianto, l’anime invade. Taccion all’Ave le fiere, gli uomini e le cose e, roseo il tramonto, nell’azzurro sfuma”. Il prelato l’assapora. E’ confortato. E’ incantato. E, alla predica, riprendendo l’ode romagnola, gusterà la gioia di spiegare come Giosuè Carducci – impropriamente ritenuto anticlericale – custodisse e rivelasse, all’occorrenza, persino un animuccio terso. E, come la sua straordinaria “Ave”, gli fosse stata infusa addirittura nella chiesetta di S. Donato a Bertinoro (proprio nel territorio nativo del prelato) durante una visita ai conti Pasolini. Mons. Proni specificherà, infine, che lo stesso poeta dedica a questo episodio ed a questa lirica, un commento in calce alla raccolta “Rime e ritmi”, laddove ricorda l’aspra controversia di chi minacciava la demolizione di quella sua graziosa chiesetta e di chi – come il grande accademico – ne suggeriva il restauro.
Mese di Maggio di bei tempi andati. Trentuno giorni diversi dagli altri giorni di altri mesi. Ma le chiese ora per il mese di maggio, son sempre più vuote. Non ci son più sarti, barbieri, ricamatrici a chiudere bottega attratti dal perenne “squillo della sera”. Non ci son folle ad accalcarsi fra gli scanni del tempio. I molti anziani d’allora son trasmigrati. Le nuove famiglie son distratte, perché anestetizzate da una nuova pseudocultura di massa. Non c’è un bimbo in chiesa! E i giovani mancano e mancheranno perché noi, prima di loro, non siamo stati troppo aperti alla vita, oppure scontano le conseguenze d’una catastrofe educativa. Noi, forse, avevamo sbagliato tutto il nostro impianto formativo. Non avevamo capito che la fede andava trasmessa e offerta con la testimonianza di vita. Ma rimane, meno male, “quella cosa bella. Rimane un tempo così com’era quando era bello”, poetava Gigi Proietti. Rimane la memoria d’una cosa dolce; un sentire, una smania irrefrenabile inchiodata nell’anima, come un’ossessione. Perché quella cosa bellezza è come una rima, un riflesso che illumina d’oro le cose più semplici, quelle uniche che restano come spiragli sull’eternità.