Il progresso industriale e l’evoluzione della fotografia in 250 immagini al MAST di Bologna

Josef Sudek, Steel Worker, 1923
Josef Sudek, Steel Worker, 1923

In concomitanza con i progressi economici del nostro paese, è cresciuta negli ultimi decenni l’attenzione per le matrici originarie e le successive vicende dello sviluppo industriale italiano. Ma solo negli ultimi anni si è incominciato a ripercorrere questo complesso itinerario facendo leva anche sulla documentazione iconografica e, in primo luogo, sulle illustrazioni fotografiche: la fabbrica, il lavoro, la condizione operaia, il “dopolavoro”, la pubblicità con immagini che documentano, o meglio ancora che “raccontano” (con uno scopo dei fotografi che le hanno realizzate che va oltre una fredda e asettica rappresentazione ma che implica invece un proprio, personale e originale approccio “critico”, o comunque un proprio “punto di vista”) l’evolversi del lavoro industriale, parallelamente allo sviluppo delle tecniche e delle concezioni teoriche e pratiche inerenti alla fotografia, dagli ultimi due decenni dell’Ottocento, in cui prevalgono panoramiche esterne e ciminiere fumanti, oppure lavori fotografici pilotati dalla committenza a fini pubblicitari, agli anni successivi e fino ai nostri giorni in cui il rapporto tra fotografia e industria si fa molto più ricco ed articolato e l’obiettivo penetra all’interno della fabbrica, cogliendone via via gli aspetti più svariati.

La cosiddetta “fotografia industriale”, da quella che oggi chiamiamo “archeologia industriale” alle sofisticatissime attrezzature degli impianti industriali odierni, ha visualizzato e interpretato, consegnandolo alla memoria storico-visiva, un mondo produttivo, nella sua secolare vicenda, in cui, in lindi capannoni o dietro ordinate scrivanie, in depositi di industrie conserviere o in uffici di progettazione, in assemblee o alla mensa aziendale, in cui l’uomo, con il suo “capitale” di invenzione e di intraprendenza, di fatica e di progresso culturale ed economico, rimane “protagonista”: si ricorderà in proposito un’immagine “simbolo”, e cioè la straordinaria foto del torinese Stefano Bricarelli, scattata nell’officina San Giorgio di Genova, che richiama alla mente “Tempi moderni” di Chaplin e sintetizza visivamente il rapporto uomo-macchina, “capitale umano” e produzione.

Max Alpert, operaio, Anni '30
Max Alpert, operaio, Anni ’30

Una notevole mostra, intitolata appunto “Il capitale umano nell’industria”, curata da Urs Stahel e allestita alla Fondazione MAST di Bologna (in Via Speranza, 42), propone una selezione di oltre duecentocinquanta fotografie che documentano il rapporto tra lavoratori e industria realizzate in tempi e aree geografiche diverse da quarantuno artisti di grande fama e notorietà, tra cui Anselm Adams, Max Alpert, Robert Doisneau, Emanuel Evzeikhin, David Goldblatt, Brian Griffin, Jacqueline Hassink, Erich Lessing, Jery Lewczyński, Ugo Mulas, Sebastião Salgado, August Sander, Larry Sultan and Mike Mandel, Jakob Tuggener. La storia dell’industria coincide anche con il racconto dell’evoluzione dei rapporti tra lavoratori e imprese da sempre caratterizzate da negoziazioni sulle condizioni lavorative; risalgono all’inizio del XX secolo le prime strutture per il dopolavoro che offrivano alle persone occasioni di svago e di formazione. Attraverso le immagini delle persone nei luoghi di lavoro, la mostra pone l’accento sul ruolo determinante che il capitale umano ha sempre svolto nello sviluppo dell’economia e della società.

La mostra racconta dunque il lavoro nelle miniere, nei grandi impianti dell’industria metallurgiche e meccaniche, nelle fabbriche tessili, nei cantieri navali, ferroviari e stradali, nelle centrali elettriche, mettendo a confronto strumenti, metodi e condizioni di lavoro dall’Ottocento a oggi. Come ci dice il curatore, “l’obiettivo coglie l’aspetto gerarchico del lavoro, dai Colletti Blu e Bianchi, agli ingegneri, manager, direttori e imprenditori. Ma non è tutto: le fotografie in mostra ci parlano anche di pendolarismo, di salubrità e sicurezza nei luoghi di lavoro e di tempo del lavoro rigorosamente disciplinato dall’industria. Spesso il progresso sociale è stato ottenuto a costo di lotte e confronti accesi fra le parti. Alcuni autori delle immagini sino (ingiustamente) anonimi, altri erano collaboratori delle fabbriche; era infatti piuttosto comune che

SALGADO Brest, France, 1990
SALGADO Brest, France, 1990

all’interno degli stabilimenti si organizzassero veri e propri studi fotografici in cui operavano anche grafici e “ritoccatori” con il compito di realizzare materiale informativo e promozionale di altissima qualità; il punto di vista di questi operatori è molto importante perché restituisce uno sguardo “dall’interno”, una sorta di “auto rappresentazione” della stessa azienda, o comunque l’immagine di come intendesse “apparire”.

Antonio Paoletti, Diga di Agaro in costruzione, 1935 - 41
Antonio Paoletti, Diga di Agaro in costruzione, 1935 – 41

Ma con questi temi si sono cimentati alcuni ‘grandi’ della fotografia”, tra i quali i maestri sopra menzionati, a cui si possono aggiungere anche lo svedese Torkel Korling, Antonio Paoletti, lo spagnolo Jorge Ribalta, Tano D’Amico, il tedesco Henrik Spohler, il quale ha detto, con parole che “fotografano” una nuova e sempre crescente – nonché inquietante – situazione che colloca l’uomo in una posizione assai diversa da quella dei decenni precedenti: “Ciò che sembra il materializzarsi di una visione del futuro, sono in realtà gli spazi che occupano le macchine nel presente. Che sia la catena di montaggio della casa automobilistica BMW, un hangar o il padiglione di assemblaggio del produttore di telefoni cellulari Siemens, si tratta sempre di spazi nei quali l’uomo riveste un ruolo marginale, quando non è addirittura assente”. Dalle fabbriche e quindi anche dalle fotografie.

Dall’excursus emerge – sul piano più specifico della evoluzione dell’immagine – come insieme alla consapevolezza dell’infinita potenzialità dello strumento fotografico, si affermi una progressiva autonomia del fotografo, il quale approfondisce la più complessa realtà industriale, come momento d’incontro (ma anche di scontro) di interessi e di culture, e, su un altro fronte, come la fabbrica e il mondo del lavoro diventi nuovo “paesaggio” da scoprire e interpretare ed occasione per ricerche alternative in cui l’analisi dello spazio si coniuga con il recupero della memoria. Peccato che, oltre l’effimero di una bella mostra, resti soltanto un cataloghino davvero “poverello”.

Michele De Luca

 

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