
Dopo una lunga malattia, è morto a Fermo Mario Dondero, figura storica della fotografia italiana. Ne fu amico e ritrasse scrittori, ma fu anche autore di meravigliosi reportage. Era nato a Milano nel 1928. Ha continuato a viaggiare, sperimentare, fotografare, fino a quando ha potuto muoversi. Senza arrendersi al selfie, con la sua Leica, come ha raccontato in un’intervista rilasciata a Franco Marcoaldi: “La passione politica ha finito spesso per condurmi sui fronti di guerra e così, in più di un’occasione, ho corso il rischio di lasciarci le penne: come durante il conflitto tra Marocco e Algeria, o in Guinea. Ma io ho fotografato di tutto: artisti, scrittori, ma soprattutto la gente comune. Perché ho sempre pensato a un racconto incentrato sull’osservazione di fatti minimali, su ciò che nella società rimane latente e deve essere riportato alla luce. In questo risiede il valore civile del nostro mestiere”.
Come ebbe a scrivere Claudio Magris, Dondero possedeva una forza espressiva che lo aiutava a “viaggiare sentendosi sempre, nello stesso momento, nell’ignoto e a casa, ma sapendo di non avere, di non possedere una casa. Chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero, un ospite; dorme in stanze che dopo di lui albergano sconosciuti; non possiede il guanciale su cui posa il capo, né il tetto che lo ripara”.
Con Dondero se ne andato un “personaggio” della fotografia italiana, quella che si affermò a partire dagli anni Cinquanta, gravitando a Milano, a Brera, intorno al Bar Giamaica immortalato da Ugo Mulas in un famoso scatto. Ma nella sua modestia, egli sembrava quasi non accorgersi della “storia” che ormai è sedimentata nelle sue inquadrature: col suo sguardo sempre lucido, la sua inesauribile curiosità, era sempre pronto a partire per una nuova avventura, come se fosse la prima. Come Corto Maltese. Con la stessa attenzione ai fatti, alla cronaca, il suo rispetto per le persone che incontrava, per la loro dignità ed unicità, così riassunto da Corrado Stajano: “Un fotografo che è sempre stato dalla parte delle persone riprese dal suo obiettivo, partecipe del loro destino, attento a cogliere uomini e donne in una luce di verità, senza violare i sentimenti più segreti e senza superare mai le gelose barriere private”.

Dondero ha girato il mondo, è stato nei punti critici delle guerre, sempre puntuale agli appuntamenti più significativi e dandocene testimonianza in decenni di lavoro, grazie alla sua eccezionale capacità di cogliere i piccoli momenti, di fissare l’attimo di cui non resterà traccia se non attraverso i suoi scatti. La foto che lo rese celebre in tutto il mondo è quella scattata a Parigi, sul marciapiede davanti alle Éditions de Minuit a Saint-Germain-de-Prés. Sono ritratti gli scrittori del Nouveau Roman. Dondero prima era stato partigiano in Val d’Ossola e giornalista nel primo dopoguerra. Iniziato alla fotografia, quasi per caso, fu poi travolto da una inesauribile passione. E come tutti i grandi fotografi, quasi per campare, Dondero fu anche fotografo di moda, ritrattista. Ma sempre travolto da una irrefrenabile curiosità di vedere e ritrarre il mondo. Vinse molti premi internazionali, ma in onore alla Genova di cui era originario, teneva molto anche alla qualifica di “Camallo” onorario, della compagnia dei portuali genovesi.

“Sono uomo, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me”, scriveva Terenzio nella sua commedia Heautontimorumenos”; parole che si attagliano perfettamente al grande trasporto per il genere umano, in se stesso, di Dondero, che ha lasciato scritto il suo “credo”, che animava la sua concezione e la pratica stessa del suo lavoro: “Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono”. In lui esistenza e vita lavorativa si sono fuse in una indissolubile simbiosi di viaggio continuo e di avventura; la sua – come soleva dire – era “una deformazione dello spirito: continui a viaggiare e a immaginare in forma di fotografia. Per questo non ho preso mai la patente. Preferisco il treno, il pullman o la nave … Fare fotografie è anche un modo per dimostrare un affetto, per captare l’anima dei luoghi e delle persone”.
Michele De Luca